La “gabbia” che Claudio Moffa col suo saggio pubblicato da Arianna Editrice invita a “rompere” non è quella dell’euro, se con ciò s’intende una ‘romantica’ operazione di “ritorno alla lira”.
Come recita il sottotitolo nella copertina di Rompere la gabbia, la questione cruciale è quella della sovranità monetaria, che il docente di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici all’Università di Teramo auspica venga ristabilita al più presto, in Italia e negli altri Paesi occidentali, per uscire dall’attuale “crisi”.
Esiste tuttavia un ostacolo insormontabile: la mancanza di volontà da parte di un ceto politico ed una classe dirigente che nel migliore dei casi, quando non si tratta di personaggi collusi e a libro paga, s’illudono che l’attuale abnorme finanziarizzazione dell’economia e della vita degli Stati nel suo complesso possa durare ancora a lungo senza ridurre la stragrande maggioranza nelle persone in una schiavitù che la ‘gabbia’ del titolo di quest’opera evoca al meglio.
Per procrastinare quest’inevitabile esito, già in parte realizzatosi, questi cosiddetti politici delle moderne “democrazie”, su imbeccata dei loro padroni e dei media di loro proprietà, si sono inventati l’ondata di “antipolitica” e la “crisi”.
Ma la “crisi” non è il risultato di “sprechi” e “ruberie” (che pure ci sono), come vorrebbe farci intendere anche tutta una saggistica interessata che ha preso a bersaglio l’ormai celebre “casta” e non il mondo della grande finanza speculativa.
Perché se di “casta” si deve parlare, essa va cercata tra quell’élite, invero ristretta e potentissima, dei “signori del denaro”. Di coloro che detengono – dopo averlo servizievolmente ricevuto “a termini di legge” – il potere di emissione, vera chiave di volta dell’intera economia moderna (ma a ben considerare dell’economia d’ogni tempo e luogo, tant’è che l’Autore passa in rassegna – cap. 4 – alcuni esempi storici che ben mostrano l’attenzione che i governanti hanno sempre dedicato a tale problematica).
La domanda che nessun grande “esperto” dei media e dell’università (peraltro sempre più sotto il controllo del capitale finanziario stesso) osa mai porre è infatti la seguente: “Di chi è la moneta?”. E, nello specifico di noi italiani ed “europei” dopo oltre dieci anni di “moneta unica”: “Di chi è l’Euro”?
A questa fondamentale domanda, dopo l’eccezione in ambito accademico del defunto prof. Giacinto Auriti, il saggio di Claudio Moffa (http://www.claudiomoffa.it/), che riunisce anche alcuni suoi interventi preparati per le varie edizioni del “Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente” (http://www.masteruniteramo.it/), offre una chiara ed esaustiva risposta. L’Euro, tanto per cominciare, non è degli Stati che vi aderiscono, ovvero dei cittadini che da quelli dovrebbero essere rappresentati e difesi, bensì di una ristretta cricca di banchieri privati che controllano il cartello di banche “nazionali” denominato BCE.
Attraverso spiegazioni lineari che hanno anche il pregio di una provvidenziale ripetitività (importante per chi è a digiuno di tali argomenti), l’Autore giunge ad una sconcertante verità: l’Euro è di fatto una moneta straniera!
Che conseguentemente gli Stati (o quel che ne resta una volta spogliati della sovranità monetaria) dell’Unione Europea che l’hanno sottoscritto devono letteralmente acquistare a fronte dell’emissione di titoli del “debito pubblico” gravati da interesse. Come non può aumentare il “debito” in simili condizioni (p. 110)? E come non possono aumentare, in simili condizioni, le famigerate tasse?
Ma la BCE – che è il coronamento di una manovra che parte da lontano e che per quanto riguarda l’Italia consiste in una successione di eventi che questo libro ripercorre nella loro perfidia – crea denaro dal nulla (M. Allais), nel senso che per essa il denaro, offerto come una vera e propria “merce”, ha praticamente un costo irrisorio, sebbene la differenza tra quello ed il valore facciale impresso (da 5 a 500 euro) garantisca il famoso reddito da signoraggio.
Ora, su quest’ultimo termine (come su tutto ciò che si discosta dalla versione ufficiale ammessa dal sistema vigente politico-mediatico-culturale) è stata fatta scendere una coltre di discredito e di dileggio, ma se solo si presta attenzione alle dichiarazioni di alcuni protagonisti delle manovre che hanno prodotto l’attuale indecente ed immorale stato di cose (per esempio Andreatta o Soros), ci si rende conto che sono gli stessi “signori del denaro” ed i loro incaricati a riconoscere l’esistenza – e la redditività! – del signoraggio.
Il libro del prof. Claudio Moffa (che non a caso ha sempre invitato a collaborare “al di fuori degli schemi”) è anche un appello appassionato (e sicuramente inascoltato) alla cosiddetta “sinistra” affinché prenda atto che la battaglia per la sovranità monetaria non ha “colore”. Essa, anzi, è oggi “la” battaglia per antonomasia, in una situazione nella quale ogni “manovra” ed ogni provvedimento economico di qualsiasi governo che abbia aderito all’euro è destinato all’inevitabile fallimento poiché lo strumento monetario è completamente fuori dal suo controllo.
Né ha alcun senso vedere ancora, come se ci trovassimo cinquant’anni fa, sedersi al “tavolo delle trattative” sindacati e “datori di lavoro”, quando la proporzione tra capitale finanziario-speculativo e capitale produttivo è passata, dal 3% che era nel 1973, ad un inaccettabile 2000% nel 2010 (cioè, un rapporto di 20 a 1!).
Eppure, non è sempre andata così. Ci si è arrivati un po’ per volta. Ma se dobbiamo individuale una sorta di “big bang” lo si può fissare al 1694, con la creazione della Banca d’Inghilterra, che già Marx (al quale Moffa dedica un capitolo per mostrare come i suoi scritti giovanili tenessero nel debito conto il peso del capitale finanziario nella spirale di alienazione e sfruttamento delle classi lavoratrici) aveva indicato come una truffa ai danni dello Stato, di lì in poi “mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta”, il “debito” contratto coi banchieri privati crescendo indefinitamente (cap. 5).
L’eterno conflitto tra “produttori” (insomma, chi lavora e perciò produce ricchezza) e “speculatori” non era dunque ignoto ad un pensatore ed agitatore che ha condizionato generazioni di politici e studiosi, i quali però – complice anche una successiva svalutazione del fenomeno usurario dello stesso Marx, denunciata da Moffa – si sono incartocciati nelle varie “scuole” del Marxismo, che hanno focalizzato l’attenzione su un conflitto – quello tra “padroni” e “proletari” – che obiettivamente non spiega se non solo alcuni aspetti marginali delle moderne dinamiche economiche (e politiche).
Il libro, tra le altre cose, invita a riflettere sul fatto che esiste una notevole differenza, anche etica, tra capitale produttivo, destinato agli investimenti (ed ai rischi ad essi connessi), e capitale finanziario-speculativo.
Così si spiega la fondamentale convergenza di Cristianesimo ed Islam, uniti nella condanna del prestito ad interesse, mentre proprio l’usurocrazia apolide punta a fomentare lo scontro tra queste due tradizioni religiose.
E così trova un suo perché “un’imprenditoria etica, animata dall’obiettivo di costruire il benessere del popolo italiano”, in opposizione ai “capifila del non ancora maturo e ‘libero’ (meglio sarebbe dire ‘eversivo’) mondo bancario” (p. 127), che vide protagonista Enrico Mattei. Il quale poté svolgere la sua azione nazionale ed internazionale, ispirata ai suoi ideali cattolici (e, perché no, alla sua giovanile formazione fascista), grazie a alla presenza di un capitale produttivo ancora nettamente preponderante rispetto a quello finanziario-speculativo e, soprattutto, nelle salde mani dello Stato italiano.
Oggi, invece, dopo il suo assassinio (e quello, altrettanto significativo dal punto di vista che stiamo trattando, di Aldo Moro), lo Stato è stato assaltato, conquistato e svuotato da una banda di “camerieri dei banchieri” (per dirla con Ezra Pound) che in Italia, giusto per riassumere le date salienti, hanno agito nel modo che andiamo ad esporre.
Premesso che l’Italia, seppur sconfitta militarmente e perciò occupata, aveva mantenuto una sua sovranità monetaria (legge fascista del 1936 che definiva la Banca d’Italia, monopolista dell’emissione, un “istituto di diritto pubblico”; 1945-1948: sostanziale “continuità” rispetto al Ventennio; fino a tutti gli anni Settanta: emissione di biglietti di Stato a corso legale, quindi reddito da signoraggio nelle casse dello Stato), questi sono i momenti cruciali di quello che solo un osservatore prevenuto non può riconoscere come un complotto ordito ai danni della Nazione:
– 1981: “divorzio” del Tesoro dalla Banca d’Italia (sulla base di un mero scambio di lettere!), preceduto da un tam tam mediatico sulla necessità della “autonomia della Bd’I”. Si noti per inciso che più è aumentata la “autonomia” della Bd’I, più il cosiddetto “debito pubblico” è cresciuto…
– Il 1992 – che è quello di “Mani Pulite” – è l’anno del golpe: in rapida successione avvengono la privatizzazione della Bd’I (che sancisce la fine della nostra sovranità monetaria); il perfezionamento del suddetto “divorzio” da parte del ministro Guido Carli; le privatizzazioni del governo Amato previa trasformazione degli Enti pubblici in S.p.A.; senza contare la svalutazione della lira (governatore Carlo Azeglio Ciampi) ed il famoso ‘seminario’ sul panfilo della regina d’Inghilterra “Britannia”.
– 1993: abolizione del Ministero delle Partecipazioni Statali (i famosi “carrozzoni”…), mentre lo ‘spettacolo’ degli avvisi di garanzia veniva proiettato nelle case degli italiani.
È facile (ed irritante) osservare la rapida successione temporale di questi eventi rispetto all’accelerazione del processo di “integrazione europea” (trattati di Maastricht e Lisbona, opportunamente citati in appendice per sottolinearne l’assoluta obbedienza ai diktat della finanza speculativa a tutto danno del “lavoro”, che evidentemente non interessa affatto ai fautori della UE).
Una volta infilatisi nei gangli dello Stato, i suddetti “camerieri” traditori hanno svenduto, in nome del “libero mercato” (ma ai loro amici), l’industria pubblica strategica italiana, come ha scritto ed argomentato magistralmente Antonio Venier in un altro libro che tutti – specialmente chi ha ancora un residuo amor di Patria – dovrebbero leggere e meditare: Il disastro di una nazione. Saccheggio dell’Italia e globalizzazione (Edizioni di Ar, 1999, con presentazione di Bettino Craxi).
Ma a proposito di “libero mercato” c’è da ricordare ai suoi indefettibili ammiratori che l’esperienza di questi ultimi vent’anni ha evidenziato come la “libera impresa”, che è senz’altro un valore da tutelare ed incoraggiare, non ha alcuna speranza di sopravvivere in un regime di “libera speculazione”.
Per questo, il saggio di Claudio Moffa, che dovrebbe finire sul tavolo di tutti i politici assieme a quello di Venier se questi non fossero intenti da mane a sera a venderci ai loro padroni, si conclude idealmente con una dichiarazione che è una sorta di parola d’ordine: “Libera impresa in libero Stato padrone dell’emissione monetaria” (p. 159).
La “autonomia” dell’istituto di emissione (prima la Bd’I ed ora la BCE) ha solo posto le premesse della “crisi”, di una crisi finanziaria che a sua volta, poiché i ‘rubinetti’ della cosiddetta “liquidità” sono in mani private che li aprono discrezionalmente per ottenere risultati politici, è con ogni evidenza una crisi produttiva, tra le cui concause, stabilito che la prima è l’assenza di sovranità monetaria, possiamo annoverare la “libera circolazione di merci e uomini” e le purtroppo celebri “delocalizzazioni”.
In questo quadro che ha bisogno solo di una salutare scossa, ogni misura presa dai vari governicchi che si succedono, dagli “interventi correttivi” agli “aggiustamenti fiscali”, dalle “detrazioni” agli “incentivi”, è pura fuffa, perché rebus sic stantibus questa situazione – che genera solo povertà ed insicurezza (Moffa parla di “via giudiziaria al pauperismo” opposta ad un ragionevole “progresso” sociale ed economico) non può che riprodursi all’infinito, stringendo sempre più il cappio dell’usura attorno al collo di imprese e famiglie.